mercoledì 4 febbraio 2009
call me Achab
stasera, al Piccolo, Moby Dick
premesse:
1. qualsiasi rappresentazione teatrale, cinematografica, televisiva, radiofonica, telepatica, artistica, musicale, ecc... ecc... ecc... non regge nemmeno le scarpe all'oceanica maestosità di Melville
2. non vedevo l'ora di vedere come avrebbero risolto le scene di caccia in alto mare e mi ritrovo a fissare un dialogo di sordomuti - ecchccazzosestarannaddì?
3. mi hanno scombussolato un po' di battute, dando le migliori a quel pivello di Ismaele che nel libro non ha poi questa grande importanza a livello di personaggio, quanto come testimone e narratore onniscente
4. quando spiegano come si squarta una balena non si capisce un tubo perché parlano tutti insieme - e pensare che quella era una delle parti più gustose hi hi hi!
5. fa impressione veder riassunto un libro di qualche centinaio di pagine in 150 minuti di spettacolo, anche se senza intervallo
... però Albertazzi è un grande Achab. Non sembrava recitasse, pareva che quella fosse davvero la sua vita.
O meglio, che la vera vita del lupo di mare fosse, in realtà, una recita, e che il vero Achab fosse prigioniero di quel suo personaggio di capitano maledetto, che lo spinge a consumarsi le ossa e i giorni alla rincorsa del leviatano.
E che bianchi i suoi capelli, mentre invocava il bianco capodoglio.
E rossa, di un velluto cangiante e scarlatto, la sua marsina.
E malferme, le sue gambe, come se fossero di legno entrambe.
Eppure, maledizione, che poca voglia di morire ha quest'uomo!
"Lascio una scia bianca e inquieta, acque pallide, facce più pallide, dovunque passo. Le onde invidiose si gonfiano ai lati per sommergere la mia traccia: facciano, ma prima io passo."
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